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Illecito professionale: esclusione e rimedi nelle gare

Esclusione appalti illecito professionale

Quando un precedente negativo getta un’ombra sull’affidabilità di un’impresa nelle gare pubbliche, la stazione appaltante può escluderla. Vediamo in quali casi scatta questa esclusione discrezionale per “grave illecito professionale” e come l’impresa può difendersi e riconquistare la fiducia perduta tramite il self-cleaning, secondo il nuovo Codice degli Appalti e le più recenti sentenze


Il “grave illecito professionale” nel nuovo Codice Appalti
Nel panorama normativo degli appalti pubblici, la nozione di grave illecito professionale rappresenta una delle cause di esclusione non automatica più importanti e al tempo stesso più delicate. In base all’art. 94 del D.Lgs. 36/2023, una stazione appaltante “esclude l’operatore economico” dalla gara se accerta che esso ha commesso un illecito professionale grave tale da mettere in dubbio la sua integrità o affidabilità. In altre parole, fatti significativi avvenuti prima o durante la partecipazione a una gara – come violazioni contrattuali gravi, condotte scorrette, informazioni false, provvedimenti sanzionatori o condanne – possono giustificare l’esclusione da un appalto, purché siano debitamente dimostrati e considerati rilevanti ai fini dell’affidabilità dell’impresa.

A differenza delle cause di esclusione “automatiche” (ad esempio, le condanne penali gravi elencate tassativamente nell’art. 94 del Codice, come partecipazione a organizzazione criminale, corruzione, frode, ecc.), l’illecito professionale rientra nelle cause di esclusione discrezionali (art. 94, comma 5, lett. e) e art. 95, comma 1, lett. e) D.Lgs. 36/2023). Ciò significa che non basta la mera esistenza di un fatto potenzialmente rilevante: spetta alla stazione appaltante valutare se quel fatto concreto è sufficientemente grave e indicativo di scarsa integrità, tanto da giustificare l’estromissione dell’offerente dalla procedura. In termini giuridici, la P.A. deve compiere un giudizio di affidabilità sul concorrente, individuando il “punto di rottura” del rapporto di fiducia che le impedisce di contrarre con esso in sicurezza.

Principio di buona fede e obbligo di informazione
Una delle novità chiave introdotte dal nuovo Codice è il richiamo esplicito al principio di buona fede nelle procedure di gara (art. 5 D.Lgs. 36/2023). Questo principio permea la valutazione degli illeciti professionali: l’operatore economico è tenuto a comportarsi in modo leale e trasparente, fornendo alla stazione appaltante tutte le informazioni potenzialmente rilevanti sul proprio conto. In medio stat virtus: la buona fede impone equilibrio tra interesse pubblico e diritti dell’operatore, richiedendo collaborazione reciproca. In concreto, l’impresa deve dichiarare tutte le eventuali “macchie” nel proprio curriculum (precedenti risoluzioni contrattuali, contenziosi persi, provvedimenti sanzionatori dell’ANAC, condanne per reati contro la P.A., etc.), anche se non più iscritti nel casellario, se potrebbero influire sul giudizio della sua integrità. Omettere deliberatamente informazioni rilevanti, o peggio fornirne di false o fuorvianti, costituisce esso stesso un illecito professionale grave. Lo ha ribadito il Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 7282/2025, sottolineando che “la diffusione di informazioni inesatte o l’omissione di informazioni rilevanti, idonee a compromettere la scelta della stazione appaltante, viola il dovere di buona fede”. In tale pronuncia il Consiglio di Stato ha anche chiarito che l’elenco dei possibili illeciti professionali contenuto nell’art. 98 del Codice non è meramente esemplificativo: pur nel rispetto del catalogo tipizzato, la P.A. può valorizzare qualsiasi elemento che incida sulla fiducia nel futuro contraente, includendo condotte non espressamente previste ma ugualmente indicative di inaffidabilità. In altri termini, se emergono vicende gravi (ad esempio reati non tassativamente elencati, ma incompatibili con la corretta esecuzione del contratto), la stazione appaltante può ritenerle un illecito professionale e decidere l’esclusione, motivandola in modo rigoroso.

Dal lato dell’operatore economico, il principio di buona fede si traduce quindi in un onere di dichiarazione e trasparenza. Ad esempio, un precedente tentativo di estorsione a danno di un committente, pur non rientrando tra le cause automatiche, va comunicato perché la P.A. possa valutarlo; se l’impresa tace e il fatto emerge dopo, l’omissione aggrava la sua posizione. In virtù di questo principio, le omissioni informative assumono rilievo solo se concretamente incidono sull’affidabilità: non è sufficiente che un’informazione sia falsa o incompleta, occorre anche che avrebbe potuto influenzare le decisioni della P.A. (art. 98, comma 3, lett. b). Ad esempio, il TAR Basilicata (Potenza), con sent. n. 440/2025, ha annullato l’esclusione di un concorrente che non aveva dichiarato alcune sentenze civili a suo carico, rilevando che l’Amministrazione ne era comunque a conoscenza e quindi l’omissione non aveva tratto in inganno la gara né pregiudicato la valutazione della sua affidabilità. In questo spirito, la giurisprudenza (cfr. Ad. Plen. Cons. Stato n. 16/2020) insegna che non esiste automatismo espulsivo per l’omessa dichiarazione: la stazione appaltante deve sempre esercitare il proprio potere discrezionale, decidendo se quel silenzio (o quella falsità) intacca davvero la fiducia, e il giudice amministrativo potrà censurare solo eventuali errori manifesti o arbitrarietà in tale decisione.

Addio automatismi: false dichiarazioni e nuovi requisiti di gravità
Un importante cambiamento rispetto alla normativa previgente riguarda le dichiarazioni false o fuorvianti in gara. Nel vecchio Codice (D.Lgs. 50/2016) esisteva una causa di esclusione quasi automatica per chi forniva informazioni o documenti falsi (art. 80, c.5, lett. f-bis), che non lasciava spazio a valutazioni sulla buona o mala fede: bastava il falso “in qualsiasi forma” per comportare l’estromissione. Con il nuovo Codice 2023 questa fattispecie non è più prevista come causa automatica a sé stante. Le false dichiarazioni rientrano ora pienamente nel quadro del grave illecito professionale e seguono le regole discrezionali di cui agli artt. 94-98. In pratica, la presentazione di un documento o un dato non veritiero costituisce motivo di esclusione solo se soddisfa le condizioni dell’art. 98, comma 2: ossia se il fatto in sé è sufficiente a integrare un illecito grave e se è “idoneo a incidere sull’integrità o affidabilità dell’operatore”. Inoltre, occorre che la stazione appaltante disponga di mezzi di prova adeguati del falso (es. riscontri documentali, verifiche presso terzi).

La conseguenza è duplice. Da un lato, anche una falsità colposa o frutto di negligenza può giustificare l’esclusione, purché abbia potenziale lesivo: non serve provare il dolo intenzionale. Dall’altro lato, viene richiesto alla P.A. uno sforzo motivazionale maggiore: non può più limitarsi a constatare l’esistenza di un falso, ma deve spiegare perché quel falso è rilevante e in che misura mina la fiducia nell’offerente. Ad esempio, il Consiglio di Stato, Sez. V, con sent. n. 7117/2025, ha confermato l’esclusione di un’impresa che aveva prodotto un certificato di esecuzione lavori contraffatto a supporto della propria offerta, sottolineando che “la falsità di un documento e la sua idoneità a influenzare il processo decisionale della stazione appaltante” integrano un grave illecito professionale ai sensi dell’art. 98, comma 3, lett. b). Nella vicenda, poco importava che l’operatore si fosse giustificato dando la colpa a un dipendente infedele: il solo fatto di aver presentato un certificato non genuino, a corredo dei requisiti tecnici, è stato considerato sintomo di carenza nei controlli interni e di negligenza grave dell’impresa (mancata vigilanza sul personale), quindi sufficiente a mettere in dubbio la sua affidabilità. Summum ius, summa iniuria? No, qui non si tratta di formalismo estremo: si tutela la par condicio e la fiducia nel sistema di gara. Chiaramente, la stazione appaltante deve valutare caso per caso: se il documento falso risulta irrilevante oppure non ha influito sull’esito, l’esclusione potrebbe non essere proporzionata. Ma quando la falsità attiene proprio ai requisiti o all’offerta, la linea giurisprudenziale attuale è severa con l’operatore: “falsus in uno, falsus in omnibus” – chi mente su un elemento essenziale perde credibilità sull’intero.

Altre ipotesi di illecito professionale: quali fatti possono escludere
L’art. 98 del Codice dei Contratti Pubblici offre una lista tassativa (lettere da a) a l)) di circostanze che possono costituire un grave illecito professionale. È utile conoscerle per comprendere quando un’impresa rischia l’esclusione. Tra le principali, si segnalano:

  • Precedenti risoluzioni contrattuali per inadempimento o rescissioni anticipate d’ufficio subite dall’operatore in altri appalti, se motivati da gravi inadempienze (lett. a). Ad esempio, un appalto precedente risolto per grave ritardo o per gravi difetti esecutivi può pesare come illecito professionale.

  • Gravi contestazioni in corso d’opera: iscrizioni di riserve, penali applicate, contenziosi significativi persi dall’impresa in materia di esecuzione contratti (lett. d, e). Un caso tipico è l’appaltatore che abbia subito pesanti penali per ritardi o non conformità: ciò segnala una scarsa affidabilità.

  • Violazioni accertate di norme ambientali, sociali, del lavoro o mancato rispetto degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro (lett. c). Ad esempio, sanzioni per utilizzo di manodopera irregolare in un appalto precedente, o mancato pagamento dei contributi, possono costare caro in termini reputazionali.

  • Tentativi di influenzare indebitamente la gara o di ottenere informazioni riservate (lett. b): qualunque condotta collusiva, accordo illecito con altri concorrenti, corruzione di funzionari, ecc., rientra ovviamente tra i più gravi illeciti.

  • Gravi negligenze o malafede nell’esecuzione di contratti pubblici (lett. f): categoria ampia che copre, ad esempio, forniture con materiali scadenti, mancato rispetto di obblighi contrattuali essenziali, abbandono del cantiere, ecc., purché documentati.

  • Iscrizione nel casellario ANAC per illecito professionale o altre annotazioni interdittive (lett. i, l): se ANAC ha già sanzionato o segnalato l’operatore per comportamenti scorretti, ciò può essere utilizzato come prova di illecito.

Questi sono solo alcuni esempi. Importante è comprendere che la legge richiede sempre una valutazione concreta: la stazione appaltante deve verificare la “idoneità del fatto a dimostrare l’inaffidabilità” (art. 98, c.2, lett. b). Ciò implica considerare anche il fattore temporale e il contesto: un vecchio incidente isolato e lontano nel tempo potrebbe non essere più rilevante, specie se l’impresa nel frattempo ha tenuto una condotta impeccabile. Al contrario, recidive o plurime vicende negative compongono un quadro più allarmante. In sintesi, l’illecito professionale non è uno “stigma” indelebile applicato a vita, ma un giudizio basato su elementi aggiornati e pertinenti. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum: un errore può capitare, ma perseverare in condotte scorrette senza segni di cambiamento condanna l’impresa all’esclusione.

Il contraddittorio e l’obbligo di motivazione
Proprio perché l’esclusione per illecito professionale è frutto di una discrezionalità amministrativa, l’ordinamento pretende che sia esercitata con grande cautela e nel rispetto del diritto di difesa dell’impresa. In pratica, la stazione appaltante ha l’obbligo di attivare il contraddittorio con il concorrente prima di disporne l’esclusione: deve comunicargli le risultanze negative emerse (es. “abbiamo appreso che sei stato risolto d’ufficio in quell’appalto per gravi inadempienze” oppure “che hai ricevuto questa sanzione/condanna”) e dargli la possibilità di presentare osservazioni o giustificazioni. Questo principio del contraddittorio preventivo, già affermato dalla giurisprudenza e ora sancito dal Codice (art. 96, co.7 D.Lgs. 36/2023), serve a evitare esclusioni affrettate o basate su informazioni parziali. Può accadere infatti che il concorrente apporti elementi chiarificatori (es. quella risoluzione contrattuale poi è stata annullata in giudizio, oppure la “colpa” era principalmente della stazione appaltante, ecc.) tali da far cambiare idea all’Amministrazione. Oppure, come vedremo tra poco, che documenti le misure di self-cleaning intraprese, convincendo la P.A. della propria riabilitazione.

Allo stesso modo, qualora decida l’esclusione, la stazione appaltante deve fornire una motivazione dettagliata e rigorosa. Non basta affermare genericamente che c’è un illecito professionale: vanno indicati i fatti precisi su cui si basa la valutazione (date, provvedimenti, comportamenti), spiegando perché quell’insieme di fatti dimostra una carenza di integrità o affidabilità. Come evidenziato da Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 7282/2025, l’Amministrazione gode di un “ampio spazio di apprezzamento” nel valutare l’affidabilità, ma il suo giudizio dev’essere logico, coerente e non pretestuoso. Il giudice amministrativo, in caso di ricorso, controllerà essenzialmente due cose: che tutti gli elementi decisivi siano stati considerati (completezza dell’istruttoria) e che la conclusione della P.A. non sia manifestamente irragionevole rispetto ai fatti (es. escludere per una banalità sarebbe eccesso di potere). Se la motivazione è solida e proporzionata – ad esempio, elenca tre gravi inadempimenti contrattuali recenti e spiega perché denotano incapacità organizzativa cronica – difficilmente il giudice la potrà smentire. Viceversa, motivazioni stereotipe o copia-incolla senza valutazione concreta sono state censurate dai TAR.

Il self-cleaning: come l’impresa può “redimersi”
La presenza di un illecito professionale non significa necessariamente la condanna definitiva dell’operatore economico all’esclusione perpetua. Il nostro ordinamento, recependo i principi comunitari, offre all’impresa una via di riscatto: il self-cleaning. Questo concetto indica l’insieme delle misure di pentimento e riorganizzazione che l’operatore può adottare per dimostrare di aver superato le proprie inaffidabilità pregresse. In base all’art. 96 del Codice, l’operatore escluso o potenzialmente escludibile per illecito professionale ha diritto di documentare alla stazione appaltante le misure di compliance e riparazione intraprese, affinché questa valuti se tali misure sono sufficienti a garantirne l’affidabilità attuale nonostante il passato. In altri termini, l’impresa può provare di essere “cambiata” e meritare fiducia.

Ecco alcune azioni tipiche di self-cleaning efficaci:

  • Risarcimento o riparazione dei danni causati: ad esempio, se un precedente appalto è stato mal eseguito, l’impresa può aver rimborsato i costi o riparato i vizi a proprie spese. Questo denota assunzione di responsabilità.

  • Collaborazione con le autorità: se vi sono stati illeciti (anche penali) commessi da propri dirigenti o dipendenti, l’impresa può averli denunciati alle autorità, fornito informazioni utili alle indagini oppure testimoniato per punire i colpevoli. Mostrare di non voler occultare, ma anzi di contribuire alla giustizia, è un forte indice di ravvedimento.

  • Rinnovamento del management e riorganizzazione interna: spesso il self-cleaning passa per un cambio ai vertici o nei ruoli coinvolti nell’illecito. Rimuovere le persone responsabili delle condotte scorrette, sostituendole con figure di comprovata moralità, oppure creare nuove strutture di controllo interno (audit, compliance officer) sono segnali concreti che l’azienda vuole evitare il ripetersi degli errori.

  • Adozione di protocolli e formazione: l’impresa può dotarsi di codici etici, procedure anticorruzione, sistemi di gestione della qualità, certificazioni (es. ISO anti-bribery) e formare il proprio personale ai nuovi standard. Ciò dimostra un investimento per prevenire futuri illeciti.

  • Misure sanzionatorie interne: all’occorrenza, l’azienda può aver sanzionato o licenziato dipendenti infedeli, mostrando tolleranza zero verso i comportamenti scorretti.

Queste misure devono essere presentate in modo circostanziato e documentato all’Amministrazione. Verba volant, scripta manent: dichiarare di essere cambiati non basta, servono prove (documenti societari, attestazioni, provvedimenti disciplinari, attestati di partecipazione a corsi, ecc.). Se il self-cleaning viene giudicato sufficiente, la stazione appaltante non può escludere l’operatore per illecito professionale (lo dice espressamente l’art. 96, co.8). In sostanza, l’impresa “riabilitata” dovrà essere ammessa alla gara, anche se il suo passato avrebbe giustificato un’esclusione, perché le azioni correttive hanno ripristinato la fiducia necessaria.

Va detto che, ad oggi, le P.A. italiane non sono sempre propense a riconoscere immediatamente il self-cleaning: la cultura del “redento” è ancora in consolidamento. Tuttavia, la giurisprudenza insiste sul punto: l’eventuale rigetto del self-cleaning deve essere motivatissimo. Ad esempio, se un operatore con precedenti negativi prova di aver cambiato governance, rimborsato il danno e implementato rigidi controlli, la P.A. che volesse comunque escluderlo deve spiegare perché ritiene tali misure insufficienti. La mancanza di una valutazione seria delle misure di self-cleaning potrebbe portare all’annullamento in giudizio dell’esclusione per difetto di istruttoria. In questo senso, il TAR Campania, Napoli, sent. n. 3744/2025 ha ricordato che nemmeno una condanna penale patteggiata costituisce più causa automatica di esclusione: se non rientra nelle ipotesi tassative di legge, spetta alla stazione appaltante valutare la gravità e l’affidabilità attuale dell’impresa, tenendo conto di eventuali prove di ravvedimento. Insomma, nessuno è colpevole per sempre negli appalti: l’importante è dimostrare concretamente di aver voltato pagina.

Conclusioni operative
In definitiva, la gestione del grave illecito professionale richiede equilibrio e preparazione da entrambe le parti. Le stazioni appaltanti devono esercitare questo potere con senso di responsabilità, sapendo che è un’arma delicata: serve a tutelare le gare da operatori realmente inaffidabili, non va usata come pretesto per escludere chi non piace. Ogni decisione di esclusione va costruita su basi fattuali solide, seguendo la procedura del contraddittorio e rispettando i criteri di proporzionalità. Dall’altro lato, gli operatori economici devono essere consapevoli che oggi la propria reputazione è un asset fondamentale: investire nella compliance e nella qualità paga, perché previene inciampi che possono costare l’esclusione dalle commesse pubbliche. Se un incidente di percorso avviene, l’impresa deve reagire tempestivamente: ammettere l’errore, porvi rimedio e predisporre tutte le misure di self-cleaning del caso. Questa è l’unica strada per convincere la P.A. (e in caso il giudice) che merita comunque fiducia. In un settore dove “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, dimostrare di aver imparato dai propri errori può fare la differenza tra restare tagliati fuori o continuare a competere.

Chiudiamo con un’immagine evocativa: così come un eroe di un romanzo deve affrontare le proprie colpe per redimersi, allo stesso modo un imprenditore che abbia sbagliato può risorgere professionalmente mostrando pentimento e cambiamento reale. Alla fine, “ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro” (Oscar Wilde). Nel diritto degli appalti, grazie agli istituti del contraddittorio e del self-cleaning, anche un concorrente “peccatore” può costruirsi un futuro nelle gare pubbliche, se agisce con trasparenza, correttezza e concrete azioni di miglioramento. La consulenza legale giusta può guidare imprese e pubbliche amministrazioni lungo questo percorso complesso, affinché il principio di fiducia – pilastro del nuovo Codice – trovi piena attuazione nella prassi quotidiana delle gare.


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